Bisogna penetrare spessi strati di portoni e superare berretti piumati che chiedono i documenti per accedere al tesoro che è dentro l’ambasciata d’Italia a Kabul. Dall’esterno non si intuisce nulla, nemmeno un indizio di quella stanza dignitosa che è insieme chiesa, parrocchia, missione e diocesi, strappo tollerato nelle maglie fitte della sharia. La missio sui iuris di Kabul è l’unico segno della presenza cristiana nella Repubblica islamica dell’Afghanistan, una deroga assoluta scritta nel trattato italo-afghano del 1921. Dopo la terza guerra contro l’esercito britannico, il popolo afghano ha proclamato l’indipendenza dell’Emirato e il primo stato a riconoscere la liberazione dagli inglesi è stato l’Italia; è per questo atto di zelo – e di opportunità – che è stato concesso al re Vittorio Emanuele III di chiedere un dono che suggelli l’amicizia fra i due popoli. Sembra strano, oggi, che il governo italiano abbia chiesto di poter fondare una chiesa cattolica a Kabul, ma è in virtù di questa stranezza che si è costituito il filo di una catacombale presenza cristiana in uno stato il cui supremo comandamento in materia religiosa è: non evangelizzare.

Nel maggio del 2002 papa Giovanni Paolo II ha affidato a padre Giuseppe Moretti la guida della parrocchia incastonata nell’ambasciata. Il sacerdote barnabita allora aveva già una lunga esperienza in Afghanistan, chiamato a prendere l’eredità di padre Angelo Panigati, che per venticinque anni ha condotto l’eremitica missione rivolta essenzialmente alla comunità internazionale di Kabul. «Il mio interesse per l’Afghanistan – dice a Tempi padre Moretti – è iniziato ai tempi del seminario. A noi barnabiti è stata affidata la missione asiatica e noi seminaristi scrivevamo ai nostri missionari. Io scrivevo al nostro padre che era cappellano qui e un giorno, era il 1977, il superiore mi ha chiesto di prendere il posto del padre durante l’estate. Così, quando si è trattato di sostituire il predecessore hanno pensato a me». Dal primo viaggio di padre Moretti la situazione in Afghanistan è molto cambiata. L’invasione sovietica, la guerra civile, la presa dei talebani e infine l’arrivo degli americani hanno fatto oscillare la presenza diplomatica dell’Italia e con questa messo a rischio quel fiore raro che è la chiesa di Kabul. «Ufficialmente il mio incarico qui è iniziato nel 1990, tre anni prima che l’ambasciata italiana chiudesse. Sono rimasto qui anche quando i diplomatici se ne sono andati ma nel 1994 un razzo dei mujaheddin è piombato nell’unica stanza abitata dell’edificio. Ero ferito e mi hanno obbligato a lasciare il paese. Mi è stato concesso di rientrare a Kabul dopo il 2001, quando l’Italia ha riallacciato i rapporti diplomatici, e il papa ha deciso di istituire qui una missio sui iuris. Sono qui da solo perché la condizione posta dal governo afghano nel 1921 è che non ci fosse più di un missionario. Oltre al fatto ovvio, per un paese islamico, di non poter predicare pubblicamente».

Alla parola missionario, padre Moretti affianca quella di «eremita», fuori di metafora. «Qui non c’è mai stata nessuna comunità cristiana, figurarsi una cattolica. L’unica presenza risale al sesto secolo ma erano nestoriani. Con l’arrivo dell’islam sono scomparse tutte le religioni, non solo il cristianesimo. Le comunità zoroastriane e buddiste sono state spazzate via».L’Occidente relativista

«Essendo mancata una presenza visibile, autoctona, – dice Moretti – l’unica espressione cristiana è questa: una chiesa catacombale che esiste soltanto agli occhi della comunità internazionale, quando va bene. La concessione per questa cappella ha riaperto un piccolo canale, ma si rivolge alla comunità internazionale. Prima dell’invasione sovietica c’era una comunità vivace formata da diplomatici, dalle organizzazioni internazionali, dagli addetti dei grandi gruppi industriali europei. Fra venerdì e domenica padre Panigati diceva quattro messe in quattro lingue diverse. A ogni funzione c’erano almeno centocinquanta persone. Quando sono arrivati i russi tutto è cambiato...». E nel 2002 le cose sono cambiate di nuovo. «Sì, e non è soltanto la situazione dell’Afghanistan a essere cambiata, ma anche la presenza occidentale. Si vedevano chiaramente i segni di un Occidente immerso nel relativismo. Praticamente nessuno frequentava la chiesa a parte le eroiche piccole sorelle di Gesù, un ordine francese che fa un lavoro splendido nei vari ospedali. Pensi che le due più anziane hanno la cittadinanza afghana e la più anziana in assoluto è qui dagli anni Cinquanta: non se n’è mai andata. Però gli occidentali non si vedevano. Grazie a Dio c’erano gli asiatici: ancora adesso la maggior parte dei fedeli sono filippini, pakistani e indonesiani. La loro presenza ha rianimato la comunità negli ultimi anni».

Qualche anno fa alle suore francesi si sono aggiunti altri due ordini di consacrate. Una cosa impensabile fino al 2004, nel punto più complicato per la presenza cristiana a Kabul. «La presenza delle suore qui è un miracolo – continua il padre barnabita. Certo, ci sono molte iniziative d’ispirazione cristiana negli ospedali, nei tentativi di ricostruzione e di recupero. Ma non c’è la vita della comunità cristiana come la concepiamo in Occidente. Io per dire la Messa devo mostrare i documenti e farmi perquisire, non so se mi spiego... Poi è vero che succedono cose inaspettate: all’imposizione delle ceneri, mercoledì scorso, c’erano un centinaio di persone e ogni domenica la chiesa si riempie, dai comandanti della Nato ai cuochi dell’ambasciata. Ultimamente ci sono un gruppo di militari francesi che vengono assiduamente. Sono un esempio stupendo». E gli italiani? «Beh, dispiace dirlo, ma in chiesa se ne vedono pochissimi».

Il granello di senape

Ma ci sono momenti in cui l’isolamento, l’impossibilità di comunicare ciò che si è, diventa scoraggiamento? «I momenti di sconforto ci sono, non c’è dubbio. Ma la sfida è dimostrare la nostra fede attraverso la vita. A parlare siamo tutti bravi, tutti noi facciamo meravigliosi discorsi su Dio, ma qua si va sulla sostanza. E la sostanza è che qui a Kabul, in un paese totalmente islamico, ogni giorno si celebra l’eucarestia. Questo è il vero miracolo. Per il resto, per i “risultati”, a me piace pensare che siamo come il granello di senape seminato da Dio e la proliferazione delle suore, ad esempio, dimostra che questo granello piccolissimo e fragile può dare dei frutti. A noi interessa rappresentare qualcosa davanti agli occhi di Dio, sperando che Dio ne sia contento».

Ma qualche afghano si è mai convertito in questi anni? «Mai – dice padre Moretti –, nemmeno uno. Una volta sono venuti alcuni studenti universitari e mi hanno chiesto perché non c’era una cattedra di storia delle religioni, di tutte le religioni, visto che loro non conoscevano altro oltre all’islam. Era un’apertura minima ma molto significativa e io mi sono messo subito a disposizione per dialogare con loro su questo tema così delicato. Ecco, dopo quella volta non sono più tornati, non so se rendo l’idea della mentalità che domina qui». E quando le capita di girare per strada, come viene trattato dalla gente? «Con grandissimo rispetto. Mi baciano le mani quando arrivo e quando me ne vado. Non sanno esattamente che ruolo ho, ma per loro sono come un mullah, un uomo di Dio, quindi portano un estremo rispetto per me. Devo dire che da questo punto di vista la sensibilità degli afghani avrebbe molto da insegnare all’Occidente».

Il ruolo pastorale di padre Moretti è inscindibile dalle sue implicazioni diplomatiche. Dopo aver tenuto aperta l’ambasciata italiana è diventato una figura di riferimento per i diplomatici italiani lì e un “pontiere” verso gli alti delegati che frequentano la sua chiesa. «Negli ultimi tempi viene tutte le domeniche l’ambasciatore francese; è chiaro che alla lunga queste frequentazioni hanno dei riflessi positivi sulle nostre relazioni diplomatiche. Così è stato anche anche per il generale americano Dan McNeill, che era il comandante delle forze Isaf prima di McKiernan, nel 2008. Lui ogni domenica veniva a messa all’ambasciata e non è una cosa indifferente dal punto di vista delle relazioni internazionali, stiamo parlando del comandante della missione. Certo, è vero che le gerarchie davanti a Dio non esistono; ma è altrettanto vero che ci sono le responsabilità e ciascuno di noi risponderà a Dio in base a quelle».